Una lettura di Montale, Fine dell’infanzia
di Gabriele Marchetti
Il vero protagonista di Ossi di seppia (1925)è il paesaggio ligure, da sempre in bilico tra terra e mare. I due elementi preparano fin dal folgorante esordio de I limoni lo sfondo su cui Montale mette in atto l’atroce, illusa, insensata mania del vivere. Ad essi va aggiunto, altra presenza continua, il cielo, simboleggiato spesso soltanto dall’azzurro. Nelle successive raccolte la vicinanza spaziale e storica alle proprie radici liguri impigrisce, riducendosi già di molto ne Le occasioni (1938), vero canto sul dolore universale, e finendo poi per abdicare, ne La bufera e altro (1956), a favore di luoghi ”diversi”, anche letterariamente.
Fine dell’infanzia fa parte della sezione Meriggi e ombre. E’ uno dei testi più lunghi della raccolta di esordio di Montale, assieme a Crisalide e Incontro sempre dalla stessa sezione, 109 versi suddivisi senza regolarità in otto strofe (9, 13, 13, 15, 18, 11, 20, 10 versi rispettivamente). I metri impiegati oscillano da un massimo di 15 sillabe, in tre casi, a un minimo di 4, in due casi: nella prima strofa abbiamo 7 7 12 9 6 9 6 12sdrucciolo 10, nella seconda 7 4 (quasi a formare un endecasillabo spalmato su due versi) 9 9 8 7sdrucciolo 11 11 8 7 7 11 6, nella terza 12 11 sdrucciolo 11 11 4 9 11 7sdrucciolo 7 7 11 11 7, nella quarta 11sdrucciolo 11 7 11 11 11 7sdrucciolo 11 9 12 7 7 7 11 13, nella quinta 11 9sdrucciolo 8 12 7 11 11 11 5 7 11 7sdrucciolo 11 11 7 11 11 11, nella sesta 11 12 15 8 7 15 7 11 11 sdrucciolo 8 9, nella settima 11 11sdrucciolo 11 11 11 7 11 7 7 11 8 11 11sdrucciolo 7 7 7 7 11 11 13, nell’ottava 12 11 11 15 7 11 7 7 7 7.
Come si può vedere, la preferenza è per endecasillabi e settenari, almeno numericamente, quindi i metri della canzone tradizionale (e siamo anche vicini alle soluzioni innovative del Leopardi, alla sua idea di idillio, e come si vedrà non solo metricamente); ma ad essi Montale affianca versi che ha appreso e preso dalla versificazione libera di fine ottocento, specie quelli più lunghi, che rimandano quasi alla metrica barbara del Carducci, e versi inusuali come l’ottonario, il senario e il quinario. Del quadrisillabo si è detto che, in uno dei due casi in cui è presente, forma col settenario che lo precede un endecasillabo; l’altro invece è precedeuto da un endecasillabo piano con cui formerebbe, in enjambement, un verso di 15 sillabe.
Le rime sono poche: due nella prima strofa, due nella seconda (in entrambe le strofe, a rimare sono il terz’ultimo e l’ultimo verso), una nella terza, tre nella quarta (la prima delle due è un po’ il marchio di fabbrica di Montale, e cioè la rima tra una parola sdrucciola e una piana, la cosiddetta rima ipèrmetra: prossimi / fossi; la terza è più una rima per l’orecchio, che per l’occhio: meraviglia / strabilia), nella quinta una, nella sesta due (la seconda delle quali nel distico finale formato da un ottonario e un novenario; ma per la posizione ricorda l’uso leopardiano di chiudere le strofe con un distico rimato, ad esempio ne Alla sua donna, dove la chiusa è in 11 e 11, nell’Ultimo canto di Saffo dove èin 7 e 11, o ancora nel Canto di un pastore errante, la cui penultima strofa termina anch’essa col distico 7 e 11), nella settima due (la seconda di nuovo nel finale, tra terz’ultimo ed ultimo verso), una infine nell’ottava (tra quart’ultimo ed ultimo verso).
Il paesaggio, come in tutta la raccolta, è qui preponderante. Esso riesce perfino a sostituirsi all’autore, a sovrastarlo: nelle prime tre strofe ci sono elementi che tradiscono la presenza umana, simboleggiata dalle case, dal fumo di un casale, dallo sconosciuto contadino che risale a groppa di mulo il versante della collina, ma manca qualsiasi presenza autoriale; è solo dalla quarta strofa che troviamo un verbo in prima persona, ed è subito un verbo forte, nel senso, e riequilibra i rapporti dell’autore col testo:
So che strade correvano su fossi (v. 39),
seguito a poca distanza da un secondo verbo alla prima persona singolare (e sono gli unici due così coniugati),
Uno ne penso ancora con meraviglia (v. 45).
Proseguendo, io diventa automaticamente noi, che rimane la voce principale fino alla fine del testo:
Ma dalle vie del monte si tornava (v. 51),
da intendersi come riferito a noi;
ma il ritmo che li governa ci sfuggiva (v. 54),
e ancora
al chiuso asilo
della nostra stupita fanciullezza (vv. 63-4),
il nostro mondo aveva un centro (v. 68),
Eravamo nell’età verginale (v. 69),
che apre la sesta strofa e che fa il paio con il verso che la chiude,
Eravamo nell’età illusa (v. 79).
E di nuovo, sempre nella sesta strofa,
d’altra linfa nutrita
che non la nostra (vv. 73-4)
e
l’anima nostra confusa (v. 78).
Nella settima strofa abbiamo
ci annunziava come un’acqua;
e noi certo corremmo (vv. 86-7),
L’inganno ci fu palese (v. 90),
ci bolliva in faccia (v. 92),
Giungeva anche per noi l’ora che indaga (v. 98),
e nell’ottava
Certo guardammo muti nell’attesa (v. 105).
Non è dato sapere chi, oltre al poeta, sia rappresentato da quel noi che sembra dare più forza al suo dettato; e pare che la sua voce s’innalzi ad abbracciare l’esperienza di tutti.
Seguendo questo succedersi di assenza / presenza dell’autore, e del noi, possiamo suddividere il componimento in due blocchi: un blocco iniziale, formato dalle prime tre strofe, dove l’attenzione descrittiva (che anche nel prosieguo non cede mai, comunque) punta esclusivamente sui dati naturali, paesaggistici; e un secondo blocco, dove la presenza autoriale (come personaggio, non solo come elocuzione) copre le restanti strofe.
E’ possibile individuare facilmente quale elemento, acqua, terra e cielo, sia quello preponderante in ciascuna strofa. Nella prima, è l’acqua; l’esordio del componimento è un’immagine folgorante, precisissima,
Rombando s’ingolfava
dentro l’arcuata ripa
un mare pulsante, sbarrato da solchi,
cresputo e fioccoso di spume (vv. 1-4),
che ci ridà il ritmo ansante delle onde, seguita subito da quella del torrente che fa da contrasto:
Di contro alla foce
d’un torrente che straboccava
il flutto ingialliva (vv. 5-7).
La strofa si chiude con ulteriori elementi che arricchiscono l’immagine:
Giravano al largo i grovigli dell’alighe
e tronchi d’alberi alla deriva (vv. 8-9).
Non c’è continuità sintattica, tra le tre immagini: la punteggiatura ferma le separa, facendole risaltare ognuna per conto suo, una dopo l’altra, come per un voluto accavallamento di particolari che dia, giunti alla fine della strofa, un’immagine più completa.
La seconda strofa si apre suggerendo subito l’idea della terra. Il contrasto con la precedente è dato dall’uso del termine spiaggia, che ricorda l’arcuata ripa (designano entrambe la stessa cosa, infatti), ma che richiama anche, meglio di quella, l’idea di terrestrità: se la ripa è pur sempre la ripa del mare, la spiaggia non appartiene all’acqua. La visuale proposta da Montale fa un deciso salto all’asciutto, dando le spalle al mare:
Nella conca ospitale
della spiaggia
non erano che poche case
di annosi mattoni, scarlatte,
e scarse capellature
di tamerici pallide
più d’ora in ora (vv. 10-6),
e inizia lentamente a risalire la scogliera nella terza strofa:
Pure colline chiudevano d’intorno
marina e case (vv. 23-4),
dandoci conto delle varie presenze naturali, e non, che risaltano sotto la luce imperiosa del sole:
ulivi le vestivano
qua e là disseminati come greggi,
o tenui come il fumo di un casale
che veleggi
la faccia candente del cielo.
Tra macchie di vigneti e di pinete,
petraie si scorgevano
calve e gibbosi dorsi
di collinette: un uomo
che là passasse ritto s’un muletto
nell’azzurro lavato era stampato
per sempre – e nel ricordo (vv. 24-35).
E’ di nuovo un ordinata disposizione di elementi che arricchiscono l’immagine, e pare quasi di vedere l’acquerello che ne verrebbe fuori se lo si dipingesse. Il cielo, richiamato dall’azzurro, condivide con la terra una piccola porzione di questa strofa: e di nuovo la visuale si innalza, scivolando lenta verso l’alto, tra i bricchi così familiari a chi conosce il paesaggio ligure, fino a sfumare nella lontananza (e nel ricordo) e nell’indeterminatezza dei tratti del contadino a cavalcioni sul muletto, che infatti è mostrato solo come un’ipotesi (fa fede il congiuntivo passasse), non come una presenza reale. Ricorda qualcuna di quelle figure accidentali che animano le poesie del Leopardi, come l’artigiano che solitario rientra a casa ne La sera del dì di festa, o i servi nelle Ricordanze, o ancora il legnaiuol de Il sabato del villaggio: anche qui sono estranei, per il poeta, con cui egli non comunicherà mai, e che forse nulla hanno da comunicare a lui, appena abbozzati e comparse che fanno da sfondo.
La quarta strofa è tutta terrestre:
Poco s’andava oltre i crinali prossimi
di quei monti (vv. 36-7),
e di seguito abbiamo una traccia leopardiana nemmeno troppo velata:
varcarli pur non osa
la memoria stancata (vv. 37-8),
che richiama facilmente alla memoria i versi de Le ricordanze:
quei monti azzurri,
che di qua scopro, e che varcare un giorno
io mi pensava, arcani mondi, arcana
felicità fingendo al viver mio! (vv. 21-4);
e se in Leopardi siamo già dentro il ricordo, e il poeta ce lo dipana sotto gli occhi come se lo rivivessimo anche noi, in Montale restiamo al di fuori dei meccanismi della memoria, che pur non osa forzare il ricordo.
Il senso di terrestrità tocca in questa strofa il suo apice:
So che strade correvano su fossi
incassati, tra garbugli di spini;
mettevano a radure, poi tra botri,
e ancora dilungavano
verso recessi madidi di muffe,
d’ombre coperti e di silenzi (vv. 39-44),
dove si respira, quasi, l’odore bagnato della terra umida. Il mare è definitivamente lontano, dimenticata la sua enorme presenza; e così nella strofa seguente, che inizia:
Ma dalle vie del monte si tornava (v. 51),
per rivedere di nuovo, ma in maniera indiretta, l’acqua,
Ma riaddotti dai viottoli
alla casa sul mare (vv. 62-3),
l’elemento con cui Montale chiuderà il componimento. Nelle ultime due strofe, infatti, la predominanza del mare è palese:
sommerse ogni certezza un mare florido (v. 81),
con quel verbo che richima violentemente l’acqua, e
Pesanti nubi sul torbato mare (v. 91),
sopra l’acque scavate (v. 108).
Presenza palese, gridata quasi a richiamare la forza mai imbrigliabile delle onde, ma non unica: il cielo compare qua e là, tramite gli elementi che gli competono:
Volarono anni corti come giorni (v. 80),
dove abbiamo un verbo semanticamente legato all’aria; e poco più avanti
Un’alba dové sorgere che un rigo
di luce su la soglia (vv. 84-5),
e di nuovo le pesanti nubi del verso 91, seguite a minima distanza da
Era in aria l’attesa (v. 93).
Nell’ultima strofa ritorna il verbo volare, qui usato metaforicamente:
Volava la bella età come i barchetti sul filo
del mare a vele colme (vv. 103-4),
dove i due elementi, aria ed acqua, si legano assieme (i barchetti stanno sul mare, ma verosimilmente sarà l’aria a spingerli). E infine, nella chiusa del testo,
poi nella finta calma
sopra l’acque scavate
dové mettersi un vento (vv. 107-9),
dove ritroviamo l’identica commistione degli elementi.
Ma è forse la sesta strofa, che ho finora tralasciato, a darci il senso della poesia. Voglio riportarla per intero:
Eravamo nell’età verginale
in cui le nubi non sono cifre o sigle
ma le belle sorelle che si guardano viaggiare.
D’altra semenza uscita
d’altra linfa nutrita
che non la nostra, debole, pareva la natura.
In lei l’asilo, in lei
l’estatico affisare; ella il portento
cui non sognava, o a pena, di raggiungere
l’anima nostra confusa.
Eravamo nell’età illusa (vv. 69-79).
Il rinvio alla natura, alle illusioni che essa porta al poeta (e al bambino che egli era) ricordano di nuovo il Leopardi de Le ricordanze: anch’egli partito come figlio della natura spettacolare, bellissima, ingannevole (e qui Montale parla di età illusa), capace di parlare al cuore dell’uomo (quante immagini un tempo, e quante fole / creommi nel pensier l’aspetto vostro, vv. 7-8), e alla fine ripudiata come madre e odiata come matrigna. Qui ci si limita, fedeli al titolo della poesia, a raccontare quanto quell’illusione durasse, sottoforma di verità creduta, nel tempo dell’infanzia; perché toccherà ad altri testi montaliani, sempre all’interno degli Ossi (e in definitiva ad altre età), il tentativo di scardinare l’enigma della natura con una caparbietà, uno sforzo e una disillusione affatto leopardiane.
Gabriele Marchetti
Foto in basso di Valerio Berardi